Crocodile Rock

Addio a Lou Reed, l’uomo che ha attraversato indenne il “wild side” del rock

Lou Reed

Sempre più spesso dovremmo cimentarci in ambito rock con l’arte del coccodrillo, quello che in gergo giornalistico è il necrologio, scritto con l’illustre protagonista ancora vivo e talvolta vegeto, da tenere pronto all’uso in caso di morte più o meno annunciata.

“I hope I’ll die before I get old” cantavano nei ruggenti anni sessanta i Who di ‘My generation e non scherzavano: le morti eccellenti erano all’ordine del giorno e i loro santini andavano a infoltire altarini domestici ancora poco popolati. Martiri in sedicesimo che arricchiranno post-mortem le tasche di discografici scrupolosi nel monetizzare tutto: dai mirabili scarti da sala d’incisione fino, nei casi estremi, appurato che il barile era stato raschiato fino in fondo, a propinare veri e propri falsi come successo per alcune registrazioni posticce di Jimi Hendrix. Insomma erano tempi in cui se eri avveduto un coccodrillo da parte dovevi averlo. Magari affidandolo a qualche giovane promettente come il Monteiro Rossi di ‘Sostiene Pereira’ di Tabucchi.

Esaurita la prima stagione di belle morti insuperabili, la stagione dei Jim Morrison e dei Brian Jones, delle Janis Joplin e dei Nick Drake, siamo arrivati ai giorni nostri con i sopravvissuti di quell’epoca, una generazione di rocker inevitabilmente imbolsiti e settuagenari, che ancora si trascinano per il mondo per qualche tour o la promozione di qualche album con cui, privi degli artigli di un tempo, carezzano le guance di qualche fan coetaneo e dei loro nipotini. Poche le inevitabili eccezioni. E non mi chiedete quali, nel dubbio cerco di non mettere orecchio in queste prove, definite da qualche benigno recensore, mature in luogo di matuse.

Quindi confesso tranquillamente che per evitare brutte sorprese il disco di Lou Reed con i Metallica non l’ho ascoltato di proposito e neppure mi sono filato il tour di Berlin. Ma continuo a pescare nel mare magnum di una discografia già piena di luci ed ombre, di alti e bassi clamorosi di un personaggio fuori dal comune che ha marchiato a fuoco un genere musicale oramai giunto al mezzo secolo di vita. A scegliere solo una manciata di dischi imperdibili cito con poca fantasia i primi due dischi con i Velvet Underground (“Velvet Underground & Nico“, “White light/White heat“), e i solisti “Transformer” e “New York“, il mio preferito, una sentita dichiarazione d’amore per la Grande Mela e per le sue storie da marciapiede, per le strade sporche e malfamate, i criminali per indole e i delinquenti per necessità. Dove anche la storia degli amanti shakesperiani si trasfigura sotto gli occhi di Lou in un regolamento di conti tra ispanici.

E poi lo scherzo beffardo di “Metal machine music“: un caos di feedback che si ripete quasi ostinatamente per quattro facciate di LP per oltre un’ora di noia. La vendetta di Lou contro la casa discografica che l’aveva costretto al fiacco e commerciale “Sally can’t dance’ (lo stesso dichiarò: «Odio quel disco: è noioso. Ti immagini cosa voglia dire aver fatto uscire quella roba a mio nome? Tingermi i capelli di biondo e tutte quelle stronzate? L’hanno voluto loro e io li ho accontentati. “Sally can’t dance” è entrato nella Top Ten senza nemmeno un singolo degno di questo nome, e io mi sono detto: Oddio che merdata…Io amo i vecchi dischi dei Velvet. Non mi piacciono i dischi di Lou Reed». Uno scherzo preso dannatamente sul serio da alcuni critici per cui fu un capolavoro, anzi il capolavoro. E scomodarono paragoni con la musica classica e quella d’avanguardia. A sproposito. Molto a sproposito. Perché solo chi, per primo, inscatola la propria cacca e la spaccia come ‘merda d’artista‘ può fregiarsi, a ragione, del titolo di genio. Di tutti gli altri si può dire solo che hanno inscatolato cacca. Come per una volta ha fatto anche un grandissimo come Lou Reed.

L’Ostile Libero

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