Un jazzista muore di overdose non di diabete

Compie mezzo secolo “Out to lunch!”, pietra miliare del jazz.

dolphy
Fu una diagnosi frettolosa e sbagliata una delle concause della prematura morte di Eric Dolphy, grande jazzista che soli pochi giorni prima aveva compiuto i trentasei anni. Da qualche mese soffriva di una forma molto aggressiva di diabete tanto che quella maledetta sera del 29 giugno 1964 ebbe un malore durante un concerto a Berlino Ovest e fu condotto in ospedale. Ma i medici si attennero negligentemente allo stereotipo del caso: giovane musicista di colore drogato. Questa la sentenza, una vera condanna a morte per il povero musicista che Charles Mingus chiamava ‘il santo’, Dolphy infatti non si dorgava e neppure beveva o fumava: amava solo le caramelle!

Musicista dotatissimo, Dolphy aveva fatto una lunga gavetta, specializzandosi nell’uso del clarinetto del sassofono contralto e nel, poco usuale per il jazz, flauto. Solo nel 1958 entra a far parte di un quintetto di rilievo come quello di Chico Hamilton. Da qui una rapida carriera prima come sideman e poi in proprio. In pochi anni mette lo zampino in autentiche pietre miliari del genere: è in uno dei due quartetti che si fronteggiano, canale destro contro canale sinistro in quella grande opera di rottura che è ‘Free jazz: a collective improvisation’ di Ornette Coleman nel 1960; duetta con John Coltrane nei superbi ventitre minuti di Olé nel 1961; collabora ripetutamente con Charles Mingus come nel celebre concerto del 13 luglio 1960 al festival di Juan-Les-Pins ad Antibes o alle registrazione di
‘Charles Mingus presents Charles Mingus’. Senza tralasciare le collaborazioni con Oliver Nelson, Booker Little, George Russell, Max Roach.

E poi i dischi come frontman: il primo si intitola ‘Outward bound’, viene registrato nell’aprile del 1960. Poi è la volta di ‘Out there’, ‘Conversations’, ‘Iron man’ e infine il 25 febbraio del 1964 incide per la storica etichetta Blue Note il suo capolavoro: ‘Out to lunch’. Con Dolphy ci sono il trombettista Freddie Hubbard, il batterista Tony Williams, il contrabbassista Richard Davis e il vibrafonista Bobby Hutcherson.

L’album, registrato con una incredibile pulizia del suono da Rudy Van Gelder, oscilla elegantemente tra il vecchio bop e le nuove tendenze free. Si apre con l’ispida marcetta di ‘Hat and beard’ omaggio a Thelonious Monk per poi proseguire con la ballad ‘Something sweet and tender’ in cui duettano clarinetto e tromba. Abbandonato il clarinetto per il flauto, Dolphy dà in ‘Gazzelloni’, dedicato al celebre maestro italiano di cui era stato allievo ai corsi estivi di Darmstadt, un saggio delle sue abilità con lo strumento. Sul lato B del vecchio e caro vinile c’è  ancora posto per l’eponima ‘Out to lunch!’ e ‘Straight up and down’ con Dolphy stavolta al sax alto e la sezione ritmica che continua anche grazie all’uso del vibrafono a creare un tappeto notturno ed enigmatico.

Dall’ascolto del disco diventato a posteriori il testamento artistico di Dolphy rimane solo l’amaro di quella beffarda scritta ‘We will back’ che campeggia sulla copertina dell’album: un cartello appeso alla porta di un negozio che segnala che il gestore è ‘out to lunch!’, fuori per pranzo. Un cartello che potrebbe anche essere l’invito a prendersi una pausa e godersi un disco che ancora sa arrivare al cuore dopo mezzo secolo.

http://www.youtube.com/watch?v=DPHnvZBpsSk

L’Ostile Libero

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